LA PRATICA DEL DONO A PANETTI DI PLATANIA E NELLE MONTAGNE DEL SUD
di Francesco Bevilacqua
Si, lo so che la storia del senso dell’ospitalità dei Calabresi è falsa. E che il “Ci mettiamo il cuore” di Gattuso è una bufala. Ma questo vale quando ci riferiamo alle retoriche identitarie e turistiche. Non vale, invece, se ragioniamo in termini storici e antropologici. Già il ligure Giuseppe Isnardi, nel contraddire Edward C. Banfield (inventore dell’infamante marchio del “familismo amorale” appioppato ai meridionali), aveva spiegato che la cultura del dono era presente da sempre nelle misere comunità calabresi ed aveva sue proprie forme attraverso le quali si esplicava. Durante il confino a Brancaleone, il piemontese Cesare Pavese, aveva scritto alla sorella Maria: “La gente di questi paesi ha un tatto ed una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca […] ancora adesso questa gente è tale e quale e […] l’ospitalità è intatta”. E infine il calabrese Mario Alcaro, nel suo libro su “L’identità meridionale”, dedica un intero capitolo alla persistenza della cultura del dono nel Sud. Bene, ieri, con il Club Alpino di Catanzaro, quaranta persone in escursione tra Panetti di Platania, la Cascata della Tiglia Grande, quella della Tiglia Piccola, Borgo Pietra, Monte Faggio, Capo Bove, Monte Tombarino, Sambate, Granci e di nuovo Panetti, dopo sette ore di fatiche e di incanti, abbiamo avuto la riprova che Isnardi, Pavese, Alcaro avevano ragione. La famiglia di Pasquale Raso e di Giovanna Arcuri (a Panetti vivono appena nove persone), ci ha accolti, nel tardo pomeriggio, con una cortesia ed un’affabilità che non possono che provenire da un innato senso dell’ospitalità. Ed è di questo, che oggi voglio parlarvi. Piuttosto che delle meraviglie viste durante la nostra escursione. Quando siamo giunti nel borgo, con i nostri abbigliamenti improbabili, gli zaini, le facce segnate dalla stanchezza fisica, dalla gioia, la mentalità dei cittadini che trascorrono una domenica fuoriporta, la disabitudine a relazionarsi con le cose più vere ed autentiche della vita, Giovanna e Pasquale, con il figlio Francesco, ci hanno accolti con un vero banchetto di frittelle di fiori di zucca, salsicce, pane spalmato di nduja e vino locale. Qualcuno dei miei si chiedeva se dovevamo pagare per quell’accoglienza. Ho risposto che sarebbe stata l’offesa più ottusa che avremmo potuto fare a Giovanna e Pasquale, che, in quel momento, stavano attuando la più autentica pratica del dono appresa dai loro avi. E, dopo averci letteralmente deliziati con i sapori più tipici di questo straordinario territorio, ci hanno accompagnati nella visita alle vecchie case del borgo, testimoni di una antica vita che sembra perduta e distante. Ma che è il vero, grande tesoro delle aree interne del Sud, delle montagne del Sud. Grazie alla generosità della loro gente. Grazie a Giovanna e a Pasquale. Grazie a tutti quelli che, come loro, hanno trasformato una giornata di divertimento in un riannodare il filo reciso tra uomini e luoghi, in un rammemorare storie, vite, bellezza perdute e finalmente trovate.
Accompagnatore: Francesco Bevilacqua
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