09
LUG
2014

Racconti di Montagna: REVENTINO di Raffaele Arcuri

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Racconti di Montagna: “REVENTINO” a cura del socio Raffaele Arcuri

Marco guardava lontano, accovacciato sulla cima della montagna. Il suo sguardo sembrava annegare nel vuoto mentre la sottile riga dell’orizzonte inghiottiva lentamente quel che rimaneva del sole. Ci veniva spesso su quel cocuzzolo spoglio, il più alto fra quelli che si stagliano verso il cielo da quel frammento di terra e dal quale si può intravedere, nelle giornate terse, il mare del golfo di Sant’Eufemia.La sottile brezza accarezzava i fianchi della catena montuosa addolcendo il clima e spettinando le chiome dei pochissimi abeti; anche i suoi pensieri più complicati venivano sollevati da quel tiepido vento e diventavano leggeri, forse più delle nuvole, quei piccoli batuffoli di cotone che addobbavano a motivi curiosi l’azzurro cielo di maggio.Marco era un solitario: non che evitasse il contatto con le persone, la sua era la solitudine di chi, pur vivendo in mezzo alla gente, non era stato mai compreso. Scontroso ma solo all’apparenza, nel profondo nascondeva una fragilità estrema. Non soffriva per questo ma col tempo cominciava a provare un sottile disagio abilmente nascosto dal suo orgoglio calabrese.Marco guardava incantato quello scorcio di mare, quell’immensa azzurra pianura interrotta soltanto da qualche ombra lontana: lo Stromboli fumante, Lipari, Filicudi erano appena visibili nella foschia e sembravano formare un sottile serpente marino che strisciava tranquillo su quello spicchio di Mediterraneo.I pensieri dell’uomo viaggiavano a ritroso nei secoli e ripercorrevano con estrema lucidità la storia di quei luoghi. Questa era la sua passione: coltivare la memoria lo faceva sentire padrone di quell’arida terra, saper raccontare il passato rendeva il suo animo sicuro, come se attraverso la storia si potesse conoscere e dare un significato alla vita presente. E mentre guardava quell’incantevole spettacolo della natura, quella costa lungo la quale, viaggiando in treno verso nord, aveva più volte visto i resti delle torri cavallare, gli sembrava di udire l’urlo dei Saraceni appena sbarcati, e quelle rocce disperse sul pendio spoglio gli sembravano le popolazioni dei paesi del fondovalle in fuga. Quante razzie aveva subito la sua terra: Saraceni, Normanni Angioini, Aragonesi, Spagnoli, Piemontesi, tutti avevano preso e lasciato qualcosa. Anche le montagne retrostanti stimolavano la sua fantasia: il fruscio del vento fra gli alberi sembrava il canto dei monaci greci e cistercensi di uno dei tanti monasteri, o dei briganti. Era questa la sua illusione: attraverso la conoscenza delle radici evitare che si disgregasse la sua identità, la sua anima. “Ci sono cose – pensava, guardando quel mare – che ti rendono evidente l’esistenza di Dio e ti mettono di fronte ai tuoi limiti e alla tua debolezza”. Tantissime volte aveva pensato di lasciare per sempre la Calabria: la sua fervida immaginazione lo aveva portato spesso in altri luoghi, in altre città e per un attimo aveva lenito quel malessere, quel disagio che forse non era altro che il segno del trapasso verso la vita adulta. E’ difficile crescere, Marco l’aveva scoperto e forse ancora non lo accettava del tutto, ma non dipendeva da lui, non poteva cambiare le cose. Aveva col tempo imparato ad accettare le delusioni, a misurare le speranze, ad attendere gli eventi, ma a volte ancora s’illudeva di poter controllare le cose. Era questo in sintesi il ritratto di un uomo come tanti altri, ma che non aveva ancora chiara la strada da seguire nella vita. Marco non pensava di trovare la felicità, non era ingenuo a tal punto, voleva soltanto affermare, per un solo istante, il senso della vita, delle cose, e forse dopo averlo fatto avrebbe vissuto più tranquillo.Mentre la sua mente era occupata da questi pensieri, si accorse quasi per caso che un pastore col suo gregge risaliva lentamente il pendio: il tintinnio delle campane e le grida misurate dell’uomo risuonavano lungo la vallata. “Com’è strano il linguaggio dei pastori – pensò – e come è duro il loro lavoro. Passano la vita percorrendo sentieri che conoscono a memoria, assieme a bestie che conoscono più dell’uomo e che chiamano per nome”. Mentre gli armenti si avvicinavano Marco lo riconobbe, l’aveva incontrato qualche anno prima, in una giornata di sole: risaliva la strada che costeggiando la montagna arriva dolcemente fino in cima. Il suo nome era Salvatore e aveva lo sguardo di chi ha passato la vita intera all’aria aperta. Il tempo e il clima avevano scavato sulle sue guance due grossi solchi, due ampie e lunghe rughe che si muovevano lentamente mentre con calma, appoggiato con entrambe le braccia sul suo lungo bastone, masticava tabacco. La sua pelle color cuoio, gli occhi neri, l’alta ed esile figura, l’ombrello verde portato a tracolla quasi come un fucile, e il cappello a larghe tese ricordavano, senza eccessivi sforzi d’immaginazione, gli eroi senza macchia e senza paura visti migliaia di volte nelle pellicole western. Giunto in cima, dopo aver sistemato le bestie in una vicina radura, il pastore si avviò verso di lui e, quasi per rompere il ghiaccio disse: “ Cassupra un ce saglie mai nessunu, cce truavu suu a tie e alle curnocchie”. Poi risero insieme e, quasi come se entrambi aspettassero quel momento, si misero a parlare senza inibizioni, come se si fossero visti appena il giorno prima.Il pastore raccontò qualche sprazzo della sua vita: sua moglie lo aveva lasciato qualche anno prima e Salvatore aveva scelto la via della montagna e della solitudine. Scendeva raramente in paese e non frequentava nessuno e Marco si sentiva quasi un privilegiato a raccogliere dalla sua viva voce quelle parole che probabilmente nessuno aveva mai ascoltato. La sua famiglia era diventata il gregge, riusciva a riconoscere le pecore una per una e per ciascuna aveva scelto un nome.E mentre quelle parole scavavano lentamente nell’esistenza di quell’uomo, lasciando una sottile scia di ricordi e rimpianti, Marco pensava a quanto era strana la vita e come fosse vera l’affermazione comune che i pastori sono in parte dei filosofi.Nonostante l’aspetto grossolano e lo sguardo accigliato, l’isolamento aveva affinato la sua anima, la lontananza dagli uomini aveva liberato il suo pensiero.Erano quasi le sette e il sole, diventato di un colore rosso arancio, aveva colorato con i suoi riflessi tutto il paesaggio intorno rendendolo quasi fiabesco. Poi, quasi all’improvviso, calando sempre di più scomparve, tuffandosi completamente nel mare. Il pastore si alzò, doveva riprendere il viaggio verso casa, quella baracca di creta e legno che mostrava a Marco puntando il dito lontano. Mentre l’uomo si allontanava lentamente lungo il declivio, seguendo con lo sguardo e con la voce la sua numerosa e disciplinata famiglia, Marco lo salutò con un cenno, ringraziandolo con gli occhi, perché quel giorno era riuscito, per qualche minuto, a squarciare la sua solitudine.

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