Il racconto dell’escursione del 3 novembre: dal Casello Forestale di Cano a Pietra Mazzulisà – bosco monumentale di Acatti e di Afreni – Parco Nazionale Aspromonte
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L’escursione di domenica 3 novembre si è svolta nel Parco Nazionale d’Aspromonte. Accompagnatore: Francesco Bevilacqua. Escursione di crinale e di alta montagna, fortemente remunerativa per i panorami e per la presenza di una vasta estensione di foresta probabilmente mai tagliata, con centinaia di pini larici e roveri di proporzioni gigantesche . Il punto di partenza è stato il casello forestale di Cano: da qui si raggiunge una stradina a fondo naturale in leggera discesa che noi imbocchiamo. Si prosegue aggirando alla base l’evidente culmine roccioso di Pietra Mazzulisà (viene dal greco e significa “pietra miliare”) . Si sale su quest’ultima e poi si ridiscende dal lato opposto, seguendo sempre il crinale avendo le due gole (Butramo e Potis) sui lati e panorami sempre più vasti. Ad un certo punto si penetra in una straordinaria comunità di pini larici di dimensioni ed età simili a quelli di Fallistro, ma non frutto (come nel caso di Fallistro) di un’opera di piantumazione artificiale). Ci troviamo immersi nel bosco monumentale di“Acatti”( dal greco “spina”) e “Afreni”, dal dialetto locale, che potrebbe significare “ebreo”. I pini giganti si estendono anche sui fianchi e sui diversi crinali che scendono verso le gole sottostanti. Proseguendo, dopo vari sali scendi, si raggiungono le querce giganti.
PAESAGGIO INTERIORE di Francesco Bevilacqua
Era Valle Infernale, quella, con quel nome cupo e terrifico. Eppure era bella come una Madonna, con tutti quei colori dell’autunno che l’avvolgevano come un abito sontuoso. Vista da lassù, non si percepivano i baratri, i crepacci, i meandri, le gole, i balzi improvvisi. E tutti quegli alberi protesi nel vuoto. Come artigliati sulle rocce. Come avvinghiati agli sfasciumi che, di tanto in tanto, crollavano con tonfi sinistri. Era bella, nel tepore del giorno. E in quella luce che pareva orfana di nebbie. In quell’imbuto tra i monti c’erano sentieri invisibili, nascosti dal bosco. Dove gli uomini andavano su e giù, ogni santo giorno. C’erano i rifugi di pietre e ginestre dei pastori, le piazzole dei carbonai, le sorgive che sgorgavano dalla terra, come liquidi misteriosi. E c’erano quegli enormi pini che nessuno aveva avuto il coraggio o la forza di abbattere. I loro tronchi erano scavati alla base, con centinaia di colpi d’ascia. Per trarne schegge resinose, le tede. Che rischiaravano le notti delle case come candele. Ed accendevano il fuoco nei camini. E su quelle pendici c’erano i prati profumati di timo, dove brucavano gli animali. C’erano bacche gustose e piante odorose. E perfino erbe che servivano a lenire le sofferenze. Era tutto il nostro mondo, quella valle. Prima che essere fatto di pietre e d’alberi e di terra, là fuori, esso era ben vivo in noi. Era il nostro paesaggio interiore.