23
SET
2013

Racconti di Montagna – Il giardino degli Dei –

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IL GIARDINO DEGLI DEI   di Salvatore Pileggi

Ho incontrato Tonino lunedì mattina a mezzogiorno, in pieno centro. Per puro caso. Aveva gli occhi più celesti e luminosi del solito. Quasi come il giorno prima, in cima a Serra di Crispo. Ci siamo salutati calorosamente. Abbiamo scambiato poche parole per informarci reciprocamente dei postumi dell’avventura domenicale. Un po’ impacciati, per via della nostra scarsa abitudine a parlare di emozioni.Non come a Serra di Crispo, sul Pollino, appena ventiquattro ore prima. Il giorno prima gli ero andato incontro, quasi levitando tra le rocce, dicendogli che mi ero profondamente emozionato nel vedere quel luogo meraviglioso, ringraziandolo per avere organizzato l’escursione e condotto l’intero gruppo su quella montagna. Lui, di slancio, mi aveva abbracciato, con gli occhi più celesti e luminosi del solito. E sorridenti. A dire il vero, subito dopo, avevo cercato di nascondere il mio imbarazzo nel vedere, tra le persone che stavano intorno a noi, qualche faccia che ci guardava stupita. In quegli istanti di profonde, intime emozioni, gli amici che stavano intorno erano spariti dalla mia percezione. Il loro stupore non era causato dalla spontaneità del nostro abbraccio. Semplicemente non erano riusciti a capire, a vedere, cosa lo avesse originato. Qualcuno ha pure cercato di informarsi dove fosse questo luogo meraviglioso. C’eravamo proprio nel mezzo.Con malcelato imbarazzo ho finto di risistemare gli spallacci del pesante zaino.Avevo avuto la fortuna di arrivare in cima in solitudine, spinto da Tonino che nel frattempo aspettava tutto il gruppo di escursionisti sgranato lungo il ripidissimo costone nord-occidentale di Serra di Crispo. Il fianco della montagna che avevamo appena affrontato era un lunghissimo concatenamento di immense rocce affioranti, da aggirare con perizia, e lunghe pietraie che rendevano il passo incerto e faticoso. Ottocento metri di dislivello per uno sviluppo di sei-sette chilometri, percorsi in quasi cinque ore. Il nostro cammino ci aveva portato ad attraversare i lussureggianti piani di Vacquarro, contornati dalle cime più alte e maestose del gruppo del Pollino, e i piani di Jannace, con le loro enormi macchie tondeggianti di profumato ginepro. Enormi pois verde-scuro disseminati nel verde dei prati.Ognuno affrontava questa erta faticosa con la forza della volontà, più che con la residua forza delle gambe. Eravamo trentotto persone, ci si spronava a vicenda. Qualcuno canzonava la fatica degli altri con battute di spirito. Altri, tra un affanno e l’altro, riuscivano a raccontarsi fatti personali, altri ancora si consultavano sulla direzione da prendere. Ma, in fondo, ognuno di noi era solo con se stesso; con i propri muscoli induriti, con i propri panni inzuppati di sudore, con i propri polmoni in fiamme, con la inconfessabile angoscia di non farcela, di cedere di schianto. Gli occhi seguivano con attenzione la punta degli scarponi, per non inciampare e cadere rovinosamente. Tuttavia, ad ogni possibile occasione gli occhi, furtivi procacciatori di emozioni, rifiutavano questo ruolo marginale. Per assecondarli eravamo costretti a fermarci. Magari a sederci su qualche masso. E loro, grati, raccoglievano l’infinito adagiato tutto intorno. Ti costringevano a fermare il respiro affannoso, a rallentare il battito cardiaco. Dall’alto della montagna scrutavano l’orizzonte infinito e riportavano alla vista ed alla mente tanti luoghi conosciuti. 
Cime lontane, cime vicine, luoghi dove nel corso del tempo ognuno di noi ha lasciato un pezzo di cuore, ha spremuto ogni residua goccia di energia per poterli visitare. Scrutando l’orizzonte tornavano alla mente la vista di borghi bellissimi, silenziosi, struggenti, incastonati nel verde smeraldino. Testimoni di notturne chiacchierate tra amici, di amichevoli solidarietà cementate da un buon bicchiere di vino, sostenuto da teneri e calorosi brindisi augurali. Queste soste lungo il crinale della montagna, necessarie per riprendere fiato e raccogliere le proprie forze, non sono mai state fini a se stesse o finalizzate solo a questo scopo. Sono sempre state una malcelata scusa per riprovare piacere – puntando il braccio verso una cima lontana, verso una piccola valle, verso un borgo maestoso – nel ricordare con gli amici, per l’ennesima volta, le avventure vissute insieme, i fatti accaduti, gli aneddoti ogni volta arricchiti dalla fantasia, e provare piacere ed orgoglio nel raccontarli ai nuovi amici arrivati. La vista di questi luoghi, i profumi della natura, la percezione degli animali dei boschi, il vento ora dolce, ora tempestoso ti entrano nell’anima per sempre.Si, avevo avuto fortuna ad arrivare in cima da solo, ma l’avrei saputo dopo, appena arrivato. Non si fa nessuna gara per arrivare in cima. Chi pensa di fare gare del genere, in cima non ci arriva. Per una serie di circostanze li, in quel preciso posto, in quel preciso momento, ero arrivato da solo. In lontananza, anche loro in solitudine c’erano altri due amici, per conto loro, con i propri pensieri.L’altimetro da polso segnava duemila e dieci metri di altezza. Con i polmoni completamente strizzati, i battiti cardiaci oltre i centocinquanta, la bocca e la gola arse, l’ alluce sinistro dolorante, le gambe che avevano perso un po’ della loro naturale stabilità, il nervo che dalla spalla sale fin sotto l’orecchio sinistro che mi provocava un dolore lancinante, superai l’ultimo metro di rocce che pensavo fosse la cima di Serra di Crispo. Mi aspettavo il classico cocuzzolo di montagna. Quello che si disegna da bambino con le matite colorate, un triangolo con la cima appena arrotondata. Il disappunto di dovere percorrere ancora centinaia di metri, per giunta in salita, per raggiungere la cima durò un attimo. L’attimo successivo mi trovò impreparato a capire razionalmente quello che stavo provando a guardare quel posto. Ma durò anche questo solo un attimo.L’incredulità per quello che vedevo, lo smarrimento, la commozione costrinsero tutti i dolori e le fatiche a sparire come d’incanto.Mi sedetti di schianto. Li per li mi sembrò naturale sedermi su quel masso, non su un masso qualsiasi. Quel masso, nella posizione giusta, era stato adagiato li, apposta per me. Ci stavo pure comodo. Ero in preda ad una sorta di trance, una sorta di dormiveglia. No, no… no… , proprio profonda trance, causata dalla visione di quel posto sublime.Ero seduto sul bordo di un gigantesco grigio cratere di pietra. No, no… no… , mi trovavo sulla sommità del più grande teatro greco mai visto. Non… so bene dove mi trovavo…, ma somigliava davvero alle rovine di un teatro greco. Ero in cima a Serra di Crispo, a duemila e cinquanta metri. Enormi rocce costituivano i gradoni di questo teatro. Alcuni lastroni di pietra suonavano vuoti al tocco dei bastoncini. All’interno di questo immenso imbuto giacevano numerose macchie verdi della tipica vegetazione di alta montagna. Ero sbigottito. Ma non era questa la meraviglia. O almeno, non la sola.Tutto intorno al bordo del mio teatro greco decine e decine di pini loricati con le loro corazze verdi. I protagonisti. Nel mio teatro greco i protagonisti non stavano giù, magari riposando nella cavea vuota o nell’orchestra, nel palcoscenico, pronti per l’ennesima tragedia. Aspettando per lunghi mesi gli spettatori, se ne stavano li, sul bordo superiore. Distinguevo bene gli attori, solitari, in disparte. Non più con le loro corazze verdi, ma con le loro tuniche chiare a maniche lunghe e il loro mantello corto legato sulla spalla sinistra. Più in la il coro, pronto con voce possente e articolata a sottolineare la trama o a collegare la fine di una scena con l’inizio dell’altra. Se ne stavano li, in alto, a commentare la sfericità dell’orizzonte. Immobili e impassibili al vento tumultuoso che cercava di farli danzare. Il loro sguardo si perdeva tra le montagne circostanti. Tra i boschi, le colline, l’azzurro mare, nel golfo, a sud-est. Impassibili agli eventi dei mortali. Osservavano i comuni mortali con noncuranza, a chilometri di distanza, con la stessa sufficienza con cui osservavano le formiche camminare sulle loro tuniche dalle maniche lunghe o sul mantello legato sulla spalla sinistra. Già, i comuni mortali e le loro miserie. Non potevano curarsi dei comuni mortali.I pini loricati aspettavano impassibili per anni, per molti secoli forse. In quella attesa sotto le loro tuniche si contorcevano, si corazzavano, non volendo danzare al suono del vento tumultuoso. Quella attesa che li costringeva a spaccare per sempre il loro corpo sotto il peso della neve e del ghiaccio nel lungo inverno, aspettando invano che si ricomponesse sotto il sole cocente dell’estate. Ma quella attesa non era dedicata ai comuni mortali. I comuni mortali non amano quei luoghi. Hanno paura di quei luoghi, di quelle timpe, dei burroni, dei boschi impenetrabili e degli animali che vi dimorano. Solo gli dei meritavano quella attesa. Di sicuro sarebbe venuto Apollo, dio della poesia, della musica, delle arti, del sole. Non era forse a lui che era dedicato quel gruppo di montagne? Apollineus, Pollino. Non era forse lui che aveva voluto costruire questo enorme teatro a duemila metri d’altezza?Se arrivava lui poi, l’attesa non sarebbe stata vana. Con il suo fascino, avrebbe attirato tutte le dee e, quindi, tanti altri dei. Di sicuro la sorella Artemide, ma anche Afrodite, Era…. e se veniva Era non poteva mancare Zeus. Tutti gli dei sarebbero venuti qui a riposare. Ares qui avrebbe trovato un poco di pace. Eolo un bel posto dove esercitarsi. Magari solo Poseidone avrebbe trovato mille scuse per non venire. Zeus poi avrebbe fatto il prezioso. Aveva impiegato tutte le sue risorse per sistemarsi sull’Olimpo. Ori, sete e ambra a profusione… Tutti a criticare, ma ogni sera, gli dei, erano li, a fare bisboccia. E dopo tutto questo impegno se ne arrivava Apollo, ah, figlio degenere, con quella sua idea di creare un luogo per le vacanze, per il riposo e per le arti sull’altra sponda del mar Jonio.Apollo è sempre stato il cruccio di Zeus. Sempre a litigare perché pensava solo a divertirsi. Pensava sempre a suonare. Il Dio della musica e delle arti! Che poi era pure un gran figo. Con Ares non sembravano per niente fratelli. Anche Ares magari era un tantinello esagerato. Quest’altro pensava solo ad attizzare guerre e a scopare con Afrodite. Stava sulle scatole a tutti, ma almeno in caso di necessità su di lui si poteva contare.Alla fine l’idea di Apollo di creare un luogo dove stare in santa pace per le vacanze, dove suonare e fare del teatro convinse proprio tutti. Del resto quando c’era da fare bisboccia, gli dei, non si tiravano indietro. La scelta del luogo, poi, fu ulteriore motivo di dissapori con Zeus. Dalle parti di Thurio. Thurio? Nata dalle rovine di Sibari? Ah, la giusta nemesi. Quante liti su Sibari. Amante del lusso e dedita ai piaceri della tavola e ai festini; e dei vizi. Avrebbe fatto una brutta fine. E la fece. Distrutta da quei brutali di Crotone, che dopo averla distrutta deviarono anche il corso del fiume Crati per seppellirla per sempre!A dire il vero Zeus non diede a vedere il suo sottile compiacimento quando Apollo lo invitò a fare un sopralluogo su quella cima, un tantinello lontano dell’Olimpo ma, a dire il vero, molto simile. Il luogo era un poco più in basso dell’Olimpo, e quindi venivano rispettate le gerarchie. Poi d’estate c’era quel venticello fresco. Poi il teatro, rivolto a nord. Si potevano fare tragedie tutto il giorno. E poi, per tutti gli dei, Apollo si era fregato i Pini loricati dall’Olimpo e li aveva portati qui per abbellire queste timpe!Si fa presto ora a parlare di pini loricati. Ma fino ad allora esistevano solo sull’Olimpo.Zeus stava cercando nel suo sacco qualche saetta per colpire quel degenere di Apollo, usurpatore delle prerogative furfantesche di Ares, quando comparve Era, che lo convinse con le sue… nobili arti… a desistere. Si, è vero Apollo non era suo figlio, ma ad Era quel posto piaceva moltissimo, ed in suo onore lo avrebbe voluto chiamare Apollineus. Sempre con le sue note nobili arti, Era convinse Zeus ad organizzare subito una tragedia di Eschilo. E Zeus accettò con entusiasmo. Un poco per via delle effusioni manipolatorie di Era, un poco perché gli piaceva molto il modo sfacciato con cui Eschilo lo adulava nelle sue tragedie, un po’ perche vide Apollo, finalmente senza Pizia, spingere dei muli che portavano piccole botti cariche del nettare degli dei.Il mio teatro si animava. Ora le trombe, possenti nel suono, ma lente nel ritmo introducevano l’entrata degli attori nel palcoscenico.Gli attori tardavano ad entrare, le trombe invece conducevano sempre lo stesso ritmo. Il suono sembrava lontano, poi vicino, poi vicinissimo. Poi ancora lontano, poi di nuovo vicinissimo. Ronzava nell’orecchio. Ronzava?? Accidenti!! Mi sveglio di soprassalto, un moscone cercava di metter su casa nel mio padiglione auricolare. Lo scaccio. Una lama di luce penetra, violenta, negli occhi. Richiudo gli occhi. Li riapro, non sento più le trombe, non intravedo più il teatro, gli attori, gli dei. Vedo solo un bacino naturale a forma di teatro, composto da enormi pietre grigie. Accidenti, ho sognato. Non sono poi tanto sicuro di aver sognato. Sento in lontananza gli altri amici che arrivano giù nel centro del teatro, distrutti dalla fatica come me. Continuo a chiamarlo teatro. Sono seduti nel centro di quella sorta di enorme imbuto. Si lasciano cadere, ad uno, ad uno sui massi. Qualcuno mi chiama con insistenza. Non ho molta voglia di scendere giù, li da loro. Ho ancora bisogno di starmene un poco da solo. Per uscire dal torpore e dal sonno.Sono ancora seduto sul masso piatto messo li apposta per ospitarmi. Più tardi di sicuro scenderò nel gruppo, con noncuranza. Scenderò soprattutto per abbracciare Tonino che mi ha portato li.Mi stiracchio un poco, mi massaggio i polpacci, il collo. Mi accarezzo la nuca, la fronte, gli occhi per cercare di ridarmi un poco di lucidità.Chiudo gli occhi, li riapro. Non scorgo più il teatro e gli attori. I pini loricati hanno dismesso le loro tuniche bianche, ma sono ancora più belli con le loro corazze verdi. Non sento più le voci di Apollo e di Zeus. Non vedo più Era della quale avrei apprezzato e stimolato con cura tutte le sue nobili arti. Ed anche quelle ignobili.Mi alzo, mi do una scrollata. Afferro lo zaino che sento più pesante di quando l’ho gettato a terra. Cammino lungo il bordo del mio teatro, mi avvicino al Giardino degli Dei. Il boschetto di pini loricati. Quel nome che sembrava pomposo ed altisonante e che aveva orientato il mio sogno. Un nome che ai miei occhi non sembrava affatto usurpato o altezzoso. Immagino il presidente del parco dell’Abbruzzo che gli diede quel nome, tanti anni fa.Per apprezzare le bellezze della natura ai tuoi occhi non servono le letture, le descrizioni particolareggiate dei luoghi. Gli occhi raccolgono con semplicità la bellezza essenziale, semplice, romantica. Ti riempiono l’anima.Continuo a camminare. Mi ritrovo a considerare che, pur amandoli moltissimo e apprezzandoli per il loro valore storico, culturale e divulgativo, per un momento non mi frega più niente dei numerosi libri che conservo e che ho letto sugli scrittori del grand-tour, dei viaggiatori romantici, del concetto del sublime e del genius-loci, dei commercianti di foto del luogo e di dotte disquisizioni in materia. Né, tantomeno, delle riviste patinate finanziate dai contribuenti tramite i vari amministratori locali.Penso che farò come quel personaggio di Manuel Vasquez Montalban.Tra qualche anno utilizzerò tutti questi libri per accendere il caminetto. Ne prenderò uno dalla biblioteca, lo sfoglierò, leggerò le pagine più care. Leggerò qualche passo ad alta voce. Ripercorrerò con loro i meravigliosi luoghi visitati. Gli occhi chiusi rivedranno quei luoghi, mi restituiranno quella memoria che solo le emozioni intense e profonde riescono a fissare indelebilmente. Un’ultima lettura, per riconoscenza. Poi, grato, dividerò il dorso del libro in tre, quattro pezzi ed accenderò il camino. Mi fermo. Mi sdraio su una enorme ansa di un pino loricato, più tardi meta fotografica dell’intero gruppo.Allungo lo sguardo sulle montagne circostanti, fino al mar Jonio dall’azzurro intenso. La stanchezza è sparita. Prendo dallo zaino il mio inseparabile coltello da innesto, compagno di tante fatiche. Taglio un pezzetto di pecorino e lo mastico. Con calma. Poi taglio un pezzetto di pane, e così via. Alternandoli fino a quando li finisco.Rilassato, mi stendo completamente sull’ansa dell’albero. Ripenso ancora al sogno. Sono felice.Cerco di cacciare indietro qualche goccia di commozione. Le altre le asciugo con il dorso della mano.           

                                                                                                                                                                                                                                                                              Salvatore Pileggi

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