Se noi umani inneschiamo eventi metereologici che devastano e uccidono di Piergiorgio Iannaccaro
Il 1992 volgeva al termine lasciando in eredità al paese una prorompente e rumorosa inchiesta giudiziaria, nota come mani pulite, l’inquietante vicenda di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, una manovra finanziaria, quella del governo Amato, da centomila miliardi di lire (oltre cinquanta miliardi di euro), fatta tra l’altro di un prelievo sui conti correnti bancari degli italiani. Nei giorni immediatamente precedenti il Natale il cielo in città si era fatto grigio e le temperature sempre più pungenti.
Da Santo Stefano in poi le nevicate in Sila furono frequenti e intense. Il primo dell’anno faceva freddo e pioveva. E la pioggia era diventata battente quando nel profondo di una notte di guardia, dopo l’ultimo ricovero, cedetti al sonno per un paio d’ore. Mi svegliai all’alba e fui colpito da un chiarore insolito. Nevicava fitto e a larghe falde. Era il nitore della neve. E nevicò per ore, sino a tarda sera, lasciando uno spesso strato bianco. E fu solo l’inizio di una stagione indimenticabile. In città nevicò più volte tra Febbraio e Marzo, in Sila ancora alla fine di marzo il lago Ampollino era coperto da una spessa trama di ghiaccio. E in Maggio non c’era fontana in Sila da cui l’acqua non sgorgasse forte e fredda.
Ci pensavo oggi, mentre pranzavamo con la finestra semiaperta, dopo giorni di mitezza quasi primaverile e di cieli percorsi da nubi innocue. A Ciricilla, nella Sila Piccola, a oltre 1400 metri di quota, le temperature diurne negli ultimi quindici giorni hanno oscillato tra i 6 e i 17 gradi, di notte solo tre volte si è scesi di poco sotto lo zero, in pieno Dicembre. Una situazione ambientale che mi crea disagio. E non è soltanto frustrazione della mia attrazione per l’inverno e della mia passione sciistica, è una sorta di offesa ai ritmi profondi che scandiscono l’esistenza di noi umani, stratificati nel corso di decine di migliaia di anni.
Nel 1992 sapevamo poco, oggi l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), non le manda a dire. Il mondo si sta scaldando più velocemente che in qualsiasi altro periodo degli ultimi 2000 anni, la concentrazione di CO2 atmosferica è tra le più alte degli ultimi due milioni di anni, il ritiro dei ghiacciai non ha precedenti da almeno 2000 anni, il ghiaccio marino scompare. Il bilancio energetico della terra è fortemente sbilanciato. Eventi metereologici estremi devastano e uccidono. Si susseguono a cadenza annuale conferenze planetarie sul clima, si afferma che bisogna decarbonizzare, si straparla di green economy e di transizione energetica. Ma il clima procede imperterrito nel suo stravolgimento, percorrendo strade a noi poco conosciute. E quando le avremo comprese il clima avrà raggiunto la meta delle catastrofe ambientale.
Certamente abbiamo compreso che alla base di tutto ciò v’è l’attività umana, il formidabile sviluppo industriale dall’ottocento in poi, la deforestazione, il consumo di suolo, abitudini alimentari sbagliate. Il progresso, il benessere, la loro progressiva distorsione. C’è ancora tempo? Forse sì. Non condivido il pessimismo riassunto nel titolo di un saggio di Jonathan Franzen, “E se smettessimo di fingere?”, ovvero non possiamo prevenire l’apocalisse ambientale. Ma gli ostacoli sono molti. I paesi emergenti che per decenni hanno guardato al nostro modello di sviluppo con invidia e appetito. Due miliardi e mezzo di indiani e cinesi che crescono economicamente bruciando gas e petrolio. Produttori di petrolio e compagnie petrolifere che non hanno alcuna intenzione di cambiare mestiere. Paesi che considerano la guerra e le acquisizioni territoriali come unica priorità.
La debolezza dell’Europa, l’ambiguità americana. La pigrizia mentale di molti di noi, il credito verso uno stile di vita sfrenato che pensiamo di avere dopo la punizione pandemica. Qualche giorno fa una rivista on line, Il Tascabile, ha pubblicato un’intervista a Ferdinando Cotugno, autore di un saggio dal titolo emblematico “Primavera ambientale. L’ultima rivoluzione per salvare la vita umana sulla terra”. Da cui emerge un concetto fondamentale, per contrastare la crisi climatica bisogna scardinare il sistema economico e di valori che governano le nostre esistenze.
E così tutto torna e si riassume nel principio generale della (in)giustizia climatica. Un mondo in cui non si interviene alla radice della questione climatica, condizionato da pulsioni di conquista, dall’ottusità di autocrati, teocrati, manipolatori dell’informazione, proprietari di fonti energetiche sarà sempre più ingiusto. E penso che sia necessario cambiare il registro della comunicazione. Smetterla di presentare il cambiamento climatico in modi tali da generare ansia, l’ecoansia, e invece convincere i popoli che perseguire la mitigazione delle sue conseguenze è una battaglia di affrancamento dal modello dello sviluppo senza limiti e di eguaglianza. Un modello che piace ma al tempo stesso è palesemente divisivo e irrealizzabile.
E’ nell’optimum climatico degli ultimi millenni che è fiorita la civiltà e homo sapiens ha fatto balzi giganteschi. E’ nello stravolgimento climatico che stanno maturando disparità, povertà, desertificazione delle terre e delle menti, pesanti minacce alla salute.